I diamanti sono i migliori amici delle ragazze soprattutto se… sono etici. Abbiamo tradotto e parafrasato la strofa di una canzone che ha fatto la storia del cinema per introdurre un tema di grande importanza per chi, oggi come oggi, si approccia al mondo dei gioielli e ha intenzione, nello specifico, di acquistare la regina delle pietre preziose.
Di diamanti etici si parla sempre più spesso. Realtà rinomate come Torino Gioielli, gioielleria che vanta più di 70 anni di storia all’ombra della Mole Antonelliana nonché un e-commerce con numeri senza eguali in Italia nell’ambito dei prodotti di lusso, sottolineano il fatto di essere rivenditori di diamanti non insanguinati.
Cosa significa? In un periodo come questo, che vede chi acquista sempre più orientato non solo verso la ricerca di un prodotto di qualità, ma anche di qualcosa che sia aderente al proprio universo valoriale, rispondere a questa domanda è fondamentale. Lo faremo nelle prossime righe di questo articolo.
Cosa si intende per diamante etico
Per capire cosa sono i diamanti etici, è necessario fare un passo indietro al periodo che, in linea di massima, va dagli anni ‘70 ai ‘90. In quell’epoca, nella maggior parte dei casi, i diamanti che venivano commercializzati arrivavano da Paesi in guerra o caratterizzati da una situazione di instabilità politica, con gruppi di guerriglieri abituati a finanziare le proprie attività belliche proprio attraverso le sopra citate pietre preziose.
Dietro a queste pietre c’erano storie all’insegna del sangue e della violazione dei diritti umani. Le cose sono per fortuna cambiate all’inizio del terzo millennio. Punto di svolta è stato il World Diamond Council, un congresso dei principali Paesi produttori di diamanti durante il quale sono state messe in primo piano le peculiarità di quelli che, nel 2023, chiamiamo diamanti etici o non insanguinati.
Il Kimberley Process
Dal 2000 in poi, l’approccio etico alla commercializzazione dei diamanti è finito al centro dell’attenzione internazionale. A dimostrazione di ciò, è possibile chiamare in causa il cosiddetto Kimberley Process. Di cosa si tratta? Di un vero e proprio standard, elaborato dagli esperti dell’ONU, relativo ai diamanti non insanguinati.
Il suo lancio risale al 2003. Fin da subito, lo scopo dei Paesi coinvolti, 82 per la precisione, è stato quello di evitare il commercio dei cosiddetti diamanti di conflitto, che abbiamo descritto nelle righe iniziali di questo articolo.
La partecipazione è su base volontaria. Gli Stati che vogliono aderire al Kimberley Process Certification Scheme, hanno però l’obbligo di modificare la loro legislazione con il fine di soddisfare i requisiti minimi previsti dal sopra menzionato standard.
Le sue problematiche
Anche se, rispetto a 30/40 anni fa, sono stati fatti passi da gigante per quanto riguarda l’etica nella commercializzazione dei diamanti, sono ancora diverse le problematiche che, secondo gli esperti, il Kimberley Process ha. Nell’elenco è possibile includere, per esempio, la mancanza di accenni alla tutela dell’ambiente. Inoltre, da più parti si è posto l’accento sul fatto che, a 2023 iniziato, la definizione di “diamanti di conflitto” è anacronistica. I riflettori di quest’ultima, infatti, sono puntati solo sulle organizzazioni ribelli, tacendo gli operati poco etici sia dei governi in carica – e legittimamente eletti -sia dei privati.
Queste criticità sono dovute al fatto che, in vent’anni, il mondo è cambiato radicalmente, portando all’emergere di altri problemi di vitale importanza. Tra questi rientra la piaga dei crimini ambientali, triste realtà in diversi Paesi africani, ma anche gli atti di violenza a danno dei minatori nei villaggi di Paesi come la Tanzania.
Come già accennato, però, rispetto al passato il cambiamento è stato enorme e ha permesso la nascita di un nuovo modo di vivere l’acquisto dei gioielli, sempre più visto come un momento durante il quale è necessario mettere sul piatto anche la propria umanità e l’intenzione di lasciare un’impronta positiva nel mondo.